“Donna Ida” e i ricordi di Giuliana Einaudi.

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“C’è una grande donna dietro ogni grande uomo”: affermazione particolarmente calzante nel caso di Luigi Einaudi e della moglie Ida Pellegrini. Si conobbero tra i banchi di scuola, lei diciannovenne e lui ventinovenne, già affermato professore e giornalista. Per corteggiarla Luigi le mandò una cartolina al giorno, alcune delle quali da Dogliani. Il fidanzamento fu breve e il matrimonio si celebrò a Torino nel 1903. Si sposò in tailleur di lana color grigio-perla, un cappello e trecce castane; lo sposo in giacca scura, baffi rivolti all’insù e un paio di occhiali a pince-nez. La famiglia crebbe rapidamente: Mario nacque nel 1904, Roberto nel 1906, Giulio nel 1912. Le giornate di Luigi erano dense di impegni e Donna Ida fu sempre al suo fianco, occupandosi della casa e gestendo le spese quotidiane della famiglia. Non trascurò d’altra parte i doveri sociali derivanti dall’essere la moglie di un uomo il cui prestigio era in costante ascesa e tenne con il marito un brillante salotto – di regola il giovedì sera – che vedeva unita l’intelligenza torinese. San Giacomo era al centro dell’attenzione della famiglia e Donna Ida fu sempre considerata la “Regina” di casa.

La ricorda così Giuliana Einaudi, una delle nipoti.

«Ida pellegrini era veneta, della provincia di Verona. Orfana di madre era venuta a Torino col padre, e qui si era iscritta nell’Istituto Tecnico dove insegnava Luigi Einaudi che si innamorò di lei. A quei tempi le cose erano talmente complicate che lui andò prima a parlare con il preside, il quale convocò il padre della ragazza, che pensava a chissà quali malefatte e che invece rimase a bocca aperta quando seppe il motivo. So che per un anno o forse più Luigi aveva spedito una cartolina al giorno a Ida, solo con la firma. Poi si sono sposati e sono andati a vivere in Piazza Statuto con la suocera, Placida Fracchia, e la cognata Maria, che pare fossero gelose e le facessero fare una vita grama (me lo immagino). Ida e Luigi hanno avuto 5 figli, di cui due morti da piccoli. Una bambina credo si chiamasse Maria Teresa e un maschietto Lorenzo morto a 3 anni, amatissimo e sempre rimpianto. Gli altri 3 sono stati Mario, Roberto e Giulio. Devo dire che i miei ricordi diretti di mia nonna risalgono a quando ero bambina, tra i due nipoti più piccoli, nati dopo il 1950. Ricordo che aveva un profumo buono, quello delle donne di una volta, delicato e pulito che non sapeva di fumo o alcool e che non saprei descrivere. Un profumo che in città non c’è più. Era sempre vestita di grigio e poi, da vedova, di nero, e aveva un cappellino con la veletta una pelliccia di astrakan nera tutta di ricci, che non sapevo fosse fatta di agnellino ma che non mi piaceva per niente. Sempre costretta a un ruolo ufficiale era solo contenta quando era in casa con me, finalmente libera di essere se stessa. Aveva i capelli lunghi fino alla vita. Si toglieva le doppie punte bruciandole con la candela e si lavava i capelli col rosso d’uovo. Il mio ricordo di lei è un tutt’uno con San Giacomo dove andavamo tutti gli anni a trovarli per Pasqua, io spesso per tutto giugno e poi per la Vendemmia e i Santi. Mia nonna aveva la passione per le rose: le aveva fatte piantare in tutto il cortile, trasformandolo in un vero e proprio roseto. Un’altra passione erano gli uccelli: si portava sempre dietro nei suoi viaggi la gabbietta col suo cardellino, e aveva preso anche una coppia di colombe bianche, che con gli anni si erano riprodotte fino a formare un vero e proprio stormo che volteggiava sulla casa. Altro segno “esotico” è stato il filare di cipressi lungo la strada, all’arrivo della villa, sempre voluti dalla nonna, che dava un tono toscano a quell’angolo di Langa. Mio nonno, oltre ai libri, aveva la passione del restauro: fece restaurare tutti mobili e rifare i pavimenti con mattonelle di cotto artigianali napoletane. Mia nonna invece gestiva il guardaroba. Quello era uno scrigno, chiuso a chiave, dove solo lei, forse la zia Maria e l’addetta alla stireria potevano avere accesso. Il ricordo che ho di mia nonna e di mia zia, nei pomeriggi d’estate, è di loro due sedute sotto il bow window che dava sul giardino a lavorare a maglia. Hanno cucito centinaia di quadrotti rosa, azzurri, bianchi, di lana sottilissima che univano a formare delle morbidissime coperte. Mia nonna dimostrò tutta la sua forza e il coraggio durante la fuga in Svizzera, nel 1943. Una mattina come al solito si era alzata presto, per accompagnare il marito che aveva lezione all’Università di Torino. Arrivati a Torino trovarono un collega del nonno che li aveva avvisati di non recarsi in Università perché c’erano i fascisti che volevano arrestarlo. Avevano quindi preso un treno per Aosta, dove li aveva ospitato un monsignore loro amico. Siccome non avevano vestiti adatti per la montagna, la nonna era ripartita da sola per Dogliani in treno preso tutti i vestiti pesanti che poteva, quattro gioielli, degli scarponi ed era tornata di corsa ad Aosta. In cucina le specialità di mia nonna erano i flan di verdura (quando non montavano si arrabbiava moltissimo) e il “consommè” che faceva per il nonno. Non sono mai riuscita a farlo come il suo, marrone scuro. In quanto veneta la nonna aveva dimestichezza con il vino. Mi ha svezzata si può dire, fin da piccola a bere un goccino al giorno per farmi assuefare. Quando arrivarono gli anni della contestazione, ricordo che le dissi di non credere più in Dio. Lei mi rispose che l’unica sua speranza era quella di rincontrare suo marito nell’aldilà. Non me la sono sentita di togliergliela. Quando mi sono sposata a 17 anni fu l’unica a dirmi di non dare retta a tutti i critici moralisti, che anche lei si era sposata alla stessa età. L’ultima volta che la vidi fu in ospedale a Torino. Io avevo il pancione. Mi chiese ansiosa se fosse vero che era diventata così gialla. Lo era, ma dissi di no. Morì poco dopo. Ho ancora la sua spazzola d’argento, in un cassetto.»

Grazie a Giuliana Einaudi per aver condiviso con noi la lettera in ricordo di “Nonna Ida”, Donna Ida Pellegrini.